Golpe Borghese, giudice Salvini: ”I nomi imbarazzanti nei nastri di Labruna” 

Una prova generale, un tentativo di sovvertire l'ordine democratico e creare il caos, un'operazione su scala nazionale con nomi di rilievo nascosti da depistaggi che hanno reso monca l’indagine per ricostruire il 'Golpe Borghese'. L'allora giudice istruttore Guido Salvini è l'uomo...

Una prova generale, un tentativo di sovvertire l’ordine democratico e creare il caos, un’operazione su scala nazionale con nomi di rilievo nascosti da depistaggi che hanno reso monca l’indagine per ricostruire il ‘Golpe Borghese’. L’allora giudice istruttore Guido Salvini è l’uomo che per primo scoprì un’altra verità su quella notte che avrebbe potuto cambiare la storia d’Italia.  

Il racconto. “Antonio Labruna si presentò da me nei primi anni Novanta con una vecchia borsa impolverata, era stato uno dei pochi condannati nel processo di piazza Fontana per i depistaggi del Sid, si sentiva un capro espiatorio che aveva pagato per tutti. Era stato degradato e cercava un riscatto, una riabilitazione. Il suo ex superiore Maletti si era rifugiato in Sudafrica e, all’interno dei Servizi, molti legami di fedeltà si erano rotti. La borsa di Labruna conteneva grosse bobine magnetiche con le registrazioni dei suoi colloqui con i congiurati del ‘Golpe Borghese'”, racconta all’Adnkronos Salvini a 50 anni dall’operazione in codice Tora Tora voluta dal principe Julio Valerio Borghese per instaurare un regime militare.  

In quella vicenda “il Sid aveva naturalmente giocato un ruolo ambiguo: appoggiando apparentemente il complotto, ma registrando le voci di chi vi era coinvolto, in modo da potersene eventualmente servire in futuro come strumento di pressione. A differenza delle registrazioni sulle quali i magistrati romani avevano lavorato negli anni Settanta e che erano state materia di perizie incomplete, nei nastri che ci portò Labruna si facevano nomi imbarazzanti che non risultavano dalle registrazioni fornite in precedenza ai magistrati”. Nomi come “quelli dell’ammiraglio Torrisi, che in seguito divenne capo di Stato maggiore della Difesa, e soprattutto di Licio Gelli, incaricato di agire durante il golpe sequestrando il presidente della Repubblica Saragat, e del gruppo di mafiosi che doveva sequestrare il capo della Polizia Angelo Vicari”, dice il giudice milanese che si imbatté nel capitano Labruna durante l’indagine sulla strage di piazza Fontana.  

Il ruolo del Sid. “Il Sid aveva fornito alla magistratura una versione monca delle registrazioni, scremando tra i personaggi la cui partecipazione al complotto poteva essere rivelata e quelli che invece andavano ancora tutelati. La manipolazione delle bobine era state realizzate con mezzi rudimentali. I nastri erano stati brutalmente tagliati oppure le identità degli ‘innominabili’ erano state coperte registrandoci sopra rumori come un tintinnio di bicchieri”. Dai nastri consegnati da Labruna “emerse che l’operazione del dicembre 1970 non era rimasta geograficamente circoscritta a Roma. Emergeva che contemporaneamente a quelle in corso nella capitale ci furono concentrazioni eversive a Milano, Venezia, in tutto il Centro Italia, in Calabria come in Sicilia. In tutto si mobilitarono migliaia di uomini tra militari e civili. Questo bastava a smentire le sentenze che avevano sminuito il ‘golpe’ dandone una lettura marionettistica, riducendolo a un tentativo operato da un gruppetto di anziani fascisti nostalgici”.  

Il golpe fallì. “A mezzanotte quando già i congiurati erano penetrati nel ministero dell’Interno arrivò il contrordine. Probabilmente era venuto in meno l’appoggio degli Usa e di una parte dell’Arma dei carabinieri. Però il tentativo ebbe i suoi effetti. Rappresentò una specie di messaggio. Come dire, se continuano gli scioperi e se si pensa ad un’apertura governativa a sinistra, potrebbe andare anche peggio”, sottolinea il giudice Salvini.  

Gli americani. Dalle carte desecretate pochi anni fa negli Usa “è emerso come almeno dall’agosto 1970 Borghese avesse preso contatti con l’ambasciata americana per sondare i margini di un eventuale appoggio o benestare di Washington all’operazione. Da quelle carte risulta, però, che la risposta degli statunitensi fu più che scettica. Gli americani ritenevano non solo che in Italia un ‘golpe’ fosse destinato al fallimento, ma anche che poteva avere effetti controproducenti scatenando un’incontrollabile reazione delle sinistre. Washington riteneva, del resto, che in Italia non ci fosse, a differenza della Grecia, una leadership militare in grado di governare. Penso che il mancato sostegno americano, anche se ovviamente non denunciarono alle autorità italiane quanto si stava preparando, sia stato la vera chiave del fallimento del progetto”.  

Il rapporto con la stagione delle stragi. Per il giudice che conosce in modo approfondito quegli anni, “Tutto sembra dimostrare che nel 1969, all’epoca di Piazza Fontana, il ‘golpe’ non fosse affatto pronto sul piano politico-militare. La mia sensazione è che in quel momento solo la corrente radicale di Ordine Nuovo nel Veneto ritenesse che i tempi fossero già maturi per dare la spallata finale al sistema democratico e arrivarono quindi alla strage. Oggi chiameremmo questa strategia ‘accelerazionismo’, tipica degli attentati di alcuni gruppi suprematisti statunitensi: creare con il terrorismo una situazione di caos dalla quale non si può tornare indietro. Questo non significa ovviamente che tra le stragi e il ‘golpe Borghese’ non ci sia un rapporto: gli attentati dimostrativi precedenti volevano produrre un clima che avrebbe portato al golpe, poi qualcuno, i neonazisti veneti che volevano velocizzarne l’attuazione, passarono alle stragi”, conclude il giudice Guido Salvini.  

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