Inchiesta covid Bergamo, pm: “Con zona rossa si potevano evitare 4mila morti”

(Adnkronos) – La zona rossa avrebbe permesso di evitare circa 4000 morti nella provincia di Bergamo travolta dall’ondata di contagi covid tra il febbraio e il marzo 2020, come si legge nell’avviso di conclusione delle indagini della procura di Bergamo sulla gestione dell’emergenza. Non avere istituito la ‘zona rossa’ nei comuni della Val Seriana, inclusi Alzano Lombardo e Nembro, “nonostante l’ulteriore incremento del contagio in Regione Lombardia registrato” il 29 febbraio e il 1 marzo 2020 e nonostante “l’avvenuto accertamento delle condizioni che, secondo il cosiddetto ‘piano Covid’, corrispondevano allo scenario più catastrofico” ha causato “la diffusione dell’epidemia da Sars-Cov-19 in Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro”, si legge.  

La procura stima “un incremento non inferiore al contagio di 4.148 persone, pari al numero dei decessi in meno che si sarebbero verificati in provincia di Bergamo, di cui 55 nel comune di Alzano e 108 nel comune di Nembro, rispetto all’eccesso di mortalità registrato in quel periodo, ove fosse stata estesa la zona rossa a partire dal 27 febbraio 2020”. 

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, sono indagati in concorso con altre 13 persone, tra cui il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, per avere “in cooperazione colposa tra loro cagionato per colpa la morte” di 55 persone, di cui la procura di Bergamo elenca i nomi nell’avviso di conclusione indagini. 

L’allora capo della protezione civile, Angelo Borrelli, l’ex assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera, il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro, l’ex direttore del welfare lombardo Angelo Cajazzo e Claudio D’Amario, direttore generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute, sono indagati dalla procura di Bergamo per epidemia colposa per non avere, in concorso tra loro e con l’allora ministro della Salute Speranza, per cui procede il tribunale dei ministri, rispettato le indicazioni del piano pandemico, nonostante “la raccomandazione di Oms del 5 e del 23 gennaio 2020; l’allerta di Oms e Paho (Pan American Health Organization) del 20 gennaio 2020; la dichiarazione del 31 gennaio 2020 con la quale il Direttore Generale di Oms dichiarava che il coronavirus rappresentava un’emergenza internazionale di sanità pubblica” e i documenti dell’Oms del 2014 e del 2017, si legge nell’avviso di conclusione indagini della procura di Bergamo. 

Conte, Fontana, ma anche i componenti del Comitato tecnico scientifico istituito per coordinare le mosse per contrastare la pandemia sono finiti nel mirino della procura di Bergamo, che ha chiuso le indagini sul Covid. In particolare viene contestato loro di aver ‘sottovalutato’ – a partire dalla riunione del 26 febbraio 2020 – i numeri del contagio in Val Seriana. In quella riunione, come in quella del giorno dopo e fino al 2 marzo viene negata la ‘zona rossa’ “nonostante l’ulteriore incremento del contagio in Regione Lombardia registrato anche in tali date (in particolare 615 casi al 29 febbraio 2020 e 984 casi all’1 marzo 2020) e comunque l’avvenuto accertamento delle condizioni che, secondo il cosiddetto piano Covid, corrispondevano allo scenario più catastrofico”. 

Una decisione con cui “cagionavano così la diffusione dell’epidemia da Sars-CoV-19 in Val Seriana” e che confermano fino al 2 marzo 2020 “data in cui, nel corso di un incontro col presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il Cts evidenziava la necessità di ‘misure limitazione ingresso e uscita oltre che distanziamento sociale’ nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro” si legge nell’atto di chiusura indagine. ‘Zona rossa’ che non fa mai istituita e che, secondo la ricostruzione degli esperti, avrebbe fatto esplodere i contagi e causare oltre 4mila morti in più in provincia di Bergamo. 

Nell’atto di chiusura indagine, Fontana è accusato di aver omesso di adottare le “misure di contenimento e gestione adeguate e proporzionate all’evolversi della situazione” e, in particolare, di non aver istituito una ‘zona rossa’ nei comuni della Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, “nonostante avesse piena consapevolezza della circostanza che l’indicatore ‘r0’ avesse raggiunto valore pari a 2, e che nelle zone ad alta incidenza del contagio gli ospedali erano già in grave difficoltà per il numero dei casi registrati e per il numero dei contagi tra il personale sanitario”. 

Nell’aver richiesto, con mail del 27 e 28 febbraio 2020, “al presidente del Consiglio dei ministri il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in Regione Lombardia, non segnalando alcuna criticità relativa alla diffusione del contagio nei comuni della Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, e dunque non richiedendo ulteriori e più stringenti misure di contenimento”, determinando – a dire della procura – “la diffusione dell’epidemia da SARS-CoV-19 in Val Seriana, inclusi i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, mediante un incremento stimato non inferiore al contagio di 4148 persone, pari al numero dei decessi in meno che si sarebbero verificati in provincia di Bergamo”, di cui 55 nel comune di Alzano Lombardo e 108 nel comune di Nembro, “rispetto all’eccesso di mortalità registrato in quel periodo, ove fosse stata estesa la zona rossa a partire dal 27 febbraio 2020”. In tutto “con l’aggravante di aver cagionato la morte di più persone”. 

“Gallera e Cajazzo non attuarono piano pandemico regionale” 

Sono accusati della mancata attuazione del piano pandemico regionale del 2006 l’ex assessore regionale al Welfare Giulio Gallera e l’ex dg Luigi Cajazzo, che figurano tra gli indagati per epidemia colposa nell’inchiesta della procura di Bergamo sulla gestione della prima fase dell’emergenza Covid. I due – scrivono i magistrati – erano “deputati all’attuazione del piano pandemico regionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale secondo le direttive del ministro della Salute, oltreché, in coordinamento con gli organi statali, all’attuazione del piano nazionale di preparazione e risposta per una pandemia influenzale del 9 febbraio 2006”. 

A Cajazzo e Gallera la procura di Bergamo contesta, in particolare, di non aver “censito e monitorato i posti letto in malattie infettive”, di non aver “tempestivamente verificato la dotazione di dpi” e “l’adeguatezza del livello di formazione del personale sanitario”, contrariamente a quanto previsto dai piani pandemici regionale e nazionale. Per l’ex assessore e l’ex dg welfare i magistrati bergamaschi ipotizzano anche il reato di rifiuto d’atti d’ufficio, “per avere, in concorso tra loro, indebitamente rifiutato un atto dell’ufficio che per ragioni di sanità pubblica doveva essere compiuto senza ritardo”. 

Procuratore Bergamo: “Non potevamo archiviare” 

“Di fronte alle migliaia di morti e di fronte a delle consulenze che ci dicono che questi potevano essere anche eventualmente evitati, noi non potevamo chiudere con un’archiviazione l’inchiesta”. Così il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, parlando in collegamento telefonico con la trasmissione ‘Agorà’ su Rai 3 dell’indagine condotta dalla procura che lui guida sulla gestione della prima fase dell’emergenza Covid nella bergamasca. “Il motivo che ha sorretto l’indagine in questi anni” è stata la volontà di “sapere cos’è successo”, ha spiegato il magistrato.  

Indagando sulla gestione della prima fase dell’emergenza Covid, sono state “riscontrate delle criticità, secondo noi delle insufficienze nelle valutazioni del rischio pandemico, perché stiamo parlando della prima fase della pandemia del gennaio-febbraio-marzo 2020”, ha affermato il magistrato motivando così “la nostra scelta finale” di chiudere le indagini nei confronti di 19 persone, tra cui l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e l’ex assessore al Welfare Giulio Gallera.  

“La vicenda è ricostruita tutta. Il discorso è la valutazione di quelli che noi riteniamo siano stati errori. Noi abbiamo contestato l’epidemia colposa”, ha detto Chiappani. “Le indagini in questo momento sono concluse e adesso si aprono le valutazioni da parte di altri soggetti e non solo della Procura della Repubblica, ma chiaramente gli avvocati, le persone coinvolte e poi ci sarà un giudice che dovrà valutare se questi comportamenti integrano o meno i reati che noi abbiamo ipotizzato”, ha sottolineato il procuratore. 

“La mia speranza è che tutto questo, al di là delle accuse e delle polemiche che senz’altro ci saranno, sia comunque uno strumento di grandissima e pacata riflessione”, ha detto ancora Chiappani spiegando: “La nostra scelta è stata quella di offrire tutto il materiale raccolto ad altri occhi, che saranno quelli di un giudice e di un contraddittorio con i difensori, perché è giusto che la ricostruzione la diano anche gli interessati e da tutto questo ricavare l’esperienza non solo di carattere giudiziario, ma se si vuole anche scientifico e amministrativo. Cioè una lezione e una grandissima riflessione”.  

La procura di Bergamo ha fatto un “lavoro mastodontico nel vero senso della parola”, ha detto ancora Chiappani aggiungendo: “Ricostruire centinaia di vite, un insieme non solo di provvedimenti, ma anche di migliaia e migliaia di mail e di sms, tutti i rapporti anche di natura estera (il discorso dell’Oms e della mancata attuazione e aggiornamento del piano pandemico) e tutte le attività da parte delle amministrazioni, anche delle singole amministrazioni lombarde, non è un gioco”. E ha poi ricordato che la Procura si è avvalsa anche di “tre consulenze che sono durate oltre un anno”.  

“Ci abbiamo impiegato tre anni, ma mi risulta che in tre anni non sia stata ancora neanche iniziata una commissione parlamentare. Quindi noi in tre anni comunque abbiamo fatto un’inchiesta”, ha evidenziato il procuratore.  

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